Ogni allenatore si porta dietro le sue leggende e le sue storie raccapriccianti, e in realtà a me
piacciono i tipi che esigono disciplina. Mi trovo bene con i mister che tengono le distanze con i loro
giocatori e non entrano troppo in intimità, perché è così che sono cresciuto. Nessuno ha mai detto:
«Povero piccolo Zlatan, certo che potrai giocare». Non ho mai avuto un papà che veniva agli
allenamenti e pretendeva che tutti dovessero essere gentili con me, neanche per sogno. Ho dovuto
sempre arrangiarmi da solo e preferisco mille volte essere rimproverato e litigare con l’allenatore
ma poter giocare perché sono bravo, piuttosto che essere suo amico e poter giocare solo perché gli
vado a genio. Non voglio manfrine, mi mandano solo in confusione. Io voglio giocare a calcio,
nient’altro.


Ero comunque nervoso quando feci le valigie e partii per l’Olanda. L’Ajax e Amsterdam erano
qualcosa di totalmente nuovo e mi ricordo il viaggio aereo, e l’atterraggio, e l’incaricata del club che
venne a prendermi all’aeroporto.


Si chiamava Priscilla Janssen ed era la factotum dell’Ajax, io mi sforzai di essere carino e gentile
e andammo subito d’accordo. Fu un buon inizio, e salutai anche l’altro tizio che aveva con sé. Era un
ragazzo della mia età che sembrava un po’ timido, ma che parlava un ottimo inglese. Veniva dal
Brasile, mi disse. Aveva giocato nel Cruzeiro, una squadra famosa laggiù, lo sapevo perché ci aveva
giocato anche Ronaldo. Proprio come me, anche lui era nuovo nell’Ajax, e aveva un nome lungo che
non afferrai esattamente. Ma aggiunse che potevo chiamarlo Maxwell e ci scambiammo i numeri di
telefono. Poi Priscilla mi accompagnò con la sua Saab Cabrio alla piccola casa a schiera che il club
mi aveva procurato a Diemen, un paesino poco lontano dalla città, e lì rimasi con un letto Hästens, un
televisore da sessanta pollici e nient’altro, a giocare alla PlayStation e a domandarmi che cosa
sarebbe successo.