Alle 14.38 entra in campo «O Brasil». I paganti sono ufficialmente oltre centosettantacinquemila, ma è evidente che in quello stadio ce ne sono molti più di duecentomila. L’ultima volta che gli esseri umani hanno messo insieme lo stesso numero di persone per seguire un evento sportivo è stata nell’antica Roma, alle corse delle quadrighe. Per trovare tanti uomini riuniti dobbiamo poi arrivare al festival di Woodstock del 1969, nella parte nord dello stato di New York.

Non è un’entrata in campo, è molto di più. Infatti l’Uruguay aspetta. Entra dopo un po’, come quasi tutte le squadre che affrontano il Brasile al Maracanã, ma prima di farlo Jacinto, che è l’altro nome di Obdulio Varela, fa: «Para». Ferma. Sta per pronunciare una delle frasi più famose non della storia del calcio, della storia dell’Uruguay. Sa perfettamente che i suoi non devono alzare lo sguardo, non si può alzare lo sguardo in quello stadio. Quindi dice: «Los de afuera, son de palo». Quelli fuori, non esistono. Solo allora fa agli altri, e a Máspoli che lo segue: «Ya ganamos!» Vinciamo. E si entra.

I brasiliani hanno sbagliato tutto, a cominciare dalla stampa. Tanti giornali sono usciti con il titolo «a vitória é nossa». Hanno offeso, con quel senso di ineluttabilità, le più antiche leggi dello sport, specie quelle del calcio. L’ultima cosa che i giocatori hanno sentito prima di entrare in campo è stata la frase, pronunciata dal solito politico di turno: «Fategli capire che qui per le strade non ci sono i serpenti»,
come a dire «alle cinque di pomeriggio di oggi, ora di Rio de Janeiro, finalmente il mondo capirà chi siamo». Da qua in poi, ogni cosa che succederà in campo è ammantata da una sorta di brina di mito, non
tutto è certo.


I racconti sono quelli dei giocatori, molto più che dei testimoni oculari. Per esempio quando Reader, cinquantatré anni, il più anziano arbitro della storia dei mondiali di calcio a dirigere una finale, lancia in aria la moneta, pare che Varela se la prenda e dica: “Arbitro, faccia come se avessero vinto loro il sorteggio, che scelgano loro campo o palla, tanto vinciamo noi”

Tratto da “Storie Mondiali” di Federico Buffa