Quasi due anni prima, nel luglio dell’84, quello che si era trovato bene, anzi benissimo, nel Napoli ero stato io. Dico che mi ero trovato più che bene perché molte cose in quella città mi facevano ricordare le mie origini e anche il quartiere La Boca. Era facile sentirmi a casa, sebbene fosse una città di matti. Quello che non sapevo, in realtà, era che oltre alle migliaia e migliaia di tifosi che aveva, come una grande, perché in realtà era una grande, calcisticamente era più vicina alla serie B che allo scudetto. Proprio
così: una squadra quasi di serie B che giocava contro una di serie C in Coppa Italia e finiva la partita difendendosi barricata dentro la propria area.


Così stavano le cose all’inizio, è la verità. Mi resi conto che ci sarebbe stato da soffrire, da soffrire parecchio, ma sapevo anche che le imprese difficili erano quelle che preferivo. Più o meno come con la Nazionale. Meno fiducia avevano in me, o in noi, e più crescevano la mia rabbia e la mia voglia di combattere. Credo fu per questo che nel Napoli mi sentii a casa sin dal primo momento, da quando arrivai. Scoprii che la squadra era considerata tra quelle destinate a lottare per la salvezza, e che nella stagione precedente aveva evitato la retrocessione per un punto! Lo scoprii solo dopo avere firmato il contratto. Ma se l’avessi saputo prima credo che avrei firmato lo stesso. Ero matto almeno quanto loro. Sentii che mi volevano bene, mi volevano bene davvero. Alcuni avevano fatto perfino lo sciopero della
fame, si erano incatenati ai cancelli del San Paolo pregando per il mio arrivo. Come avrei potuto deluderli? Oltretutto, quelle battaglie mi sarebbero servite moltissimo.