L’Inter è Campione d’Italia per la diciannovesima volta. Non possiamo non ricordare l’ex capitano e bandiera dell’Inter, Javier Zanetti. Ecco un estratto dalla sua biografia “Giocare da uomo: la mia vita”. 

“Sono considerato un giocatore saggio e un uomo tranquillo, rispettato dagli arbitri e dagli avversari, ma sono cresciuto calcisticamente tra i Diavoli Rossi, e maturato nella Pazza Inter. È strana la vita, ma per sentire che la mia indole serena e il Dna di follia si fondessero ho dovuto aspettare una notte magica a Madrid, molti anni dopo. L’idea di Javier Aldemar Zanetti sempre pacato, che non va mai oltre le righe, è imprecisa e parziale, come sa chi mi conosce davvero.

I miei sogno di gloria, la passione per l’Independiente di Bochini, la felicità del calcio alla Doble Visera, finirono d’improvviso un pomeriggio incolore, i cui dettagli ho cancellato dalla memoria. Un funzionario della squadra comunicò a me e ai miei genitori: “Il ragazzo è troppo gracile, magro chiquito, un grissino. Guadatelo voi stessi che braccetti che ha. Non cresce. Ci dispiace, Javier Zanetti non sarà un calciatore professionista, non in Serie A, in nessuna serie”.

Tagliato, bocciato, escluso dalla squadra per cui tifavo (e tifo ancora). E senza appello, per sempre: non avrei più giocato a calcio. Quando, nella solitudine del Predio, guardo i professionisti argentini rimasti prima del campionato senza squadra, che si allenano per riavere una possibilità, mi ricordo di me, bambino della delusione che provai quel giorno. Niente Doble Visera, niente maglia rossa alla Bochini. La scuola e il lavoro diventavano il mio solo mondo: avrei aiutato mio padre, non per punizione, ma quella era la nostra vita, e tutti davano una mano a Dock Sud. Se non giocavo nelle giovanili, dovevo faticare al cantiere.

La mia vita allora cambia: mio padre si sveglia alle cinque del mattino, poi alle sei chiama me. Per andare a scuola mi prepara la colazione, poi resta a guardarmi sulla porta finché non giro l’angolo e allora devo salutarlo con la mano, è il nostro rito. Una volta che, sovrappensiero, mi dimenticai di dargli il “ciao papà”, ci rimase male, lo capii dalla faccia avvilita che fece. Se non ho perduto l’equilibrio, anche quando sono arrivati la fama, i soldi, il mondo brillante, lo devo a Rodolfo, a Violeta. Mi hanno fatto capire che la “gloria” non è reale, è miraggio fine a se stesso, non ti nutre davvero come il lavoro e la famiglia. Non posso sentirmi diverso e migliore solo perché ho la fortuna di giocare mentre altri guardano la partita. Finiti i novanta minuti, tornati a casa, siamo tutti uguali”.

Javier Zanetti